Nel bosco incantato dove nasce la pipa

NEL BOSCO INCANTATO DOVE NASCE LA PIPA

Matricine, boscaggio, bracini, pianta in succhio, cioccaia, palla di seme, corbello, barlettino, che bellezza sentire per tre giorni parole, espressioni come queste. E quei posti, quel rincorrersi di groppe verdi alle spalle della Maremma. E la conferma: ho ragione quando penso e dico che Cassola non ha più scritto niente che fosse meglio del lungo racconto “Il taglio del bosco”. E il bosco era di queste parti, come Cassola era di queste parti.

Poi è bello incontrare uno che ci crede. Che crede nel proprio lavoro, nelle cose che fa, nella materia che tratta. Senti che l’ama questa materia, la sfiora ed è una carezza, la guarda ed è una carezza. Ma si, è il legno da far pipe, cioè il Signor Legno, la radica. E lui si chiama Fanis, guarda un po’, toscanamente Fanise che vuol dire ancora meno, che è ancora meno spiegabile. Sul biglietto di visita, col marchio naif, ma proprio ingenuo, con il cinghiale che sbuca di sotto una pipa, appoggiata a un abbozzo enorme, roba da farci una pipa per Poliremo e da fumarci mezzo monopolio per volta. Sul biglietto a stampa, dicevo, Fanis Cresci fa tutta la sua figura, che poi è anche una frittata averlo fatto seguire da general manager, vuoi mettere scriverci padrone, tutto un’altra roba. General manager delle Segherie di Maremma S.N.C. che non so cosa vuol dire o magari lo so ma non ha importanza, invece è importante quella scritta piccolina proprio sopra il marchio del cinghiale e dell’abbozzo di Poliremo, since 1883 in Maremma, anche qui scriverlo in inglese che ste segherie funzionano da quasi un secolo le fa sembrare anche più antiche, la patina internazionale funziona. Del resto, niente da dire, è una patina meritata, qui hanno attinto un po’ tutti, prima i francesi, poi anche gli inglesi, pure quelli più famosi, come no. E adesso, per dire, ci attinge un Savinelli, che più internazionale di lui non c’è nessuno.

Quando poi lo conosci, il Fanis Cresci, quell’ S.N.C. invece di soggezione ti fa ridere. No, fa commozione, perché la S.N.C. è lui, le sue mani sempre sporche di un tannino indelebile che hanno cominciato a lavorare a tredici anni, gli occhi morbidissimi, dei buffi baffetti a punta in su, un giovanotto di trentacinque anni, bella moglie, bel figlio e tanta, tanta radica. Andava a cercarla bambino nei boschi, poi ha imparato a tagliarla, poi si è messo a commerciarla, adesso è il numero uno in Italia.

Cresci mi ha fatto fare un bellissimo viaggio nella radica. L’avevo già studiata nei libri (in verità ce ne sono pochi). Ne avevo parlato con il famoso professor Cormio (fondatore dell’Istituto Sperimentale del Legno). L’avevo vista in Calabria, in Algeria, in Sardegna, nella stessa Toscana. Avevo visitato qualche segheria. Credevo dunque di sapere tutto sulla radica, avevo avuto persino la spudoratezza di scriverne. Ma questo viaggio che mi ha fatto fare Fanis Cresci, in zone stupende a cavallo tra le province di Livorno, Siena e Grosseto, è stato pieno di novità, di scoperte.

Ve lo racconto, e spero di riuscire a trasmettere un po’ dell’incanto, della meraviglia che ho provato.


IL MISTERO DEL CIOCCO

Da qui forse conviene cambiare registro, assumere un po’ il tono del pedagogo, perché ci può essere chi non sa che cos’è la radica e allora bisogna spiegarglielo. Dunque, spiegazione. La pipa moderna è fatta di radica, che è un legno, molto speciale e un po’ misterioso. Lo fornisce il ciocco, una specie di palla o di grossa patata che si sviluppa sotto terra. È un ingrossamento, un’escrescenza che si forma nell’apparato radicale di un arbusto botanicamente definito Erica Arborea.

Intendiamoci, si forma molto lentamente, per arrivare alle dimensioni di un pallone da calcio impiega una ventina d’anni, anche di più.

Dove, come e perché si forma? Qui comincia il difficile. Si può rispondere con precisione solo alla prima domanda. Sono parecchie le piante e gli arbusti che danno origine al ciocco sotterraneo, ma soltanto la “palla” dell’Erica Arborea (e che sia “palla di seme”, come dicono appunto in Toscano) si presta a fornire la materia prima per le pipe. Ha cioè le qualità di compattezza, di durezza, di resistenza al calore che sono necessarie (e aggiungiamoci la leggerezza). Ma neppure tutta l’Erica. In Toscana la chiamano scopa. Solo la scopa maschio dà il ciocco per pipe, quella femmina lo fa anche ma non è buono. Maschio e femmina sono un nonsenso botanico, ma qui usa distinguerlo cosi. Come fanno? Gli amici di Iesa (in provincia di Siena) e di Pari (in provincia di Grosseto), i Battigalli, i Gigli, i Rabissi, dinastie di ciccaioli, col capomacchina Aiello e l’Alfido Gonzi, che mi hanno accompagnato nei boschi, dicono che distinguere è una cosa facilissima. Intanto dal fiore (che è bianco– rosato) ma spiegarlo è troppo lungo e poi quando non è stagione di fioritura buonanotte. Altro criterio per distinguere: il maschio è più bello. E’ il caso di dichiarare che quest’arbusto, erica o scopa, come vogliamo chiamarlo, non è un granché. Qualcuno arriva a tre-quatro metri di altezza, ma fa uno sforzo, il fusto è piccolo (può averne anche più di uno), le foglie sono poco più di aghi verdi. Insomma, come si dice di certe famiglie tralignate, decadute, il meglio è sottoterra. Comunque, l’erica maschio è più bella, più piumosa. La femmina è più magra, più stecchita, tanto è vero che l’adoprano per far ramazze. Questa erica – dicono gli esperti – è un arbusto tipico della macchia mediterranea. Cresce spontanea in zone costiere, arrivando fin verso 800 metri di altezza (ma deve continuare a sentire l’area marina). La si trova in Italia, in Francia (poca), in Algeria, in Corsica, in Istria, in Grecia, in Albania, in Turchia, in Spagna. Qualcosa anche in Sud America e in Eritrea. Quanto a perché e al come si forma quell’escrescenza, quel ingrossamento, quella callosità subito sotto il colletto, che si chiama ciocco, ci sono solo ipotesi. Un botanico parla di “una conseguenza di fattori patologici determinati da traumi di origine diversa). Sarebbe come una malattia. I ciccaioli respingono questa ipotesi, ma francamente non me ne hanno offerte di più persuasive (o io, cosa possibilissima, non le ho capite). Origine traumatica o no, più spiegabile sembra la crescita. L’arbusto vive in zone climaticamente non facili, molto vento e poca pioggia. Questo spiega l’aspetto stento, il fogliame piccolo, i rami stecchiti che tendono a stringersi a fusto. Spiega anche come la pianta spinga sottoterra le sue energie.


In effetti – mi dicevano i cioccaioli – l’arbusto grosso, ben sviluppato, è più facile che abbia poca “palla”. Insomma, le qualità del ciocco sarebbero un risultato indiretto dell’ambiente ostile. Il ciocco di pianura, per esempio, dove la vita del arbusto è indubbiamente più facile, presenta quasi sempre il tarlo ed è in generale meno compatto, meno buono.



IL "CUORE" NON È IL MEGLIO


Poi c’è il terreno, elemento importantissimo. In quello tufoso – come dicono in Maremma – ci crescono i ciocchi migliori, forse perché trovano minore resistenza. I botanici aggiungono che la frattarietà al fuoco del ciocco è dovuta anche ad un altro tenore di anidride silicica, ceduta dal terreno. S’intende, però, che la relativa incombustibilità dipende soprattutto dalla fibre, che sono come legate fra loro per la particolare irregolare conformazione della “palla”, mentre il legno normale, quello dei fusti, ha fibre disposte in modo lineare e questo comporta minore compattezza e minore resistenza all’azione del fuoco.


A proposito di crescita, di modo di crescita. Sono lieto che questa visita abbia confermato quanto avevo gia scritto e abbia smentito una volta di più certe leggende che circolano, avallate o riprese da qualche pubblicità che esalta la pipa “ricavata dal cuore del ciocco di radica”. Se fosse vero, quella pipa sarebbe da buttare o durerebe ben poco. La spiegazione è semplice: come ogni legno, il ciocco ha una crescita concentrica (sia più irregolare), ma questo non avviene per strati successivi che si depositino dall’esterno, bensì avviene “dall’interno”. E chiaro? E allora è altrettanto chiaro che la parte più vecchia del ciocco è quella esterna, mentre il “cuore” e la zona in formattazione, più giovane e quindi con processi di consolidamento appena avviati o ancora in atto. Si va dunque nei boschi, dalle parti delle tenuta di Bagnolo, in zona Sant’Antonio, 3.240 ettari di meraviglie ancora intatte, appena sfiorate dalla superstrada Grosseto-Siena. Si va un po’ in macchina, poi a piedi, più su troveremo cavalli e muli che servono a trasportare non noi ma i preziosi ciocchi. Gli uomini sono armati di pochi attrezzi, piccone, pennato, accettino e – fondamentale – quella che chiamano manescure o marrescure che è una specie di connubio tra piccone e accetta. Hanno anche sacchetti e recipienti di plastica con le provviste di ogni buon lavoratore, grossi pani, pezzi di prosciutto, acqua e il vino di queste parti, aspringo, di poche concessioni. Uno solo ha il barletto o barlettino, che è una botticella per l’acqua da portare a tracolla. Mi dice con malinconia che non trova neppure più chi li rifaccia un cerchio che s’è rotto, ha rimediato lui con uno squallido fil di ferro.


La ricerca, per loro, è facile. Intanto conoscono, hanno i loro posti, e ne sono gelosi proprio come i cercatori di funghi o di tartufi. Mi fanno vedere il brantalo, un cespuglio che ha ancora al principio d’autunno bei fiori violacei: è sempre della famiglia dell’erica ed è sempre vicino a una “scopa”. Mi dicono che dove c’è una sughera – la chiamano proprio cosi – si va sul sicuro. E si trova “palla” anche in compagnia del castagno, del cerro e dell’albatro, che è poi il corbezzolo. Più raro trovare l’erica accanto al leccio. Quando però mi dicono che il ciocco vien bene dalla parte del sole, mentre verso nord “va al granchio”, dovrò aspettare per capire che “andare a granchio”, colorita ed efficace espressione, non è altro che diramarsi delle radici più o meno profonde, alcune visibili in superficie, e che in pratica il ciocco non c’è.



LA SCOMPARSA DEI BRACINI


Chiedo se questi ciocchi che andiamo cercando, che stiamo per scavare, hanno qualcosa a che vedere con i mobili detti di radica. Mi rispondono che è molto difficile, quasi sempre si usa legno di fusto o in qualche caso di radici con fibre lunghe. Da un secolo questi ciocchi che stiamo cercando sono la preziosa materia prima delle pipe e una volta erano altrettanto preziosi per i fabbri, davano un carbone per fucine molto forte, eccezionale. Adesso, a parte che dai nostri boschi sono scomparsi i bracini, cioè quelli specialisti che preparavano il carbone di legna, sarebbe follia usare a questo scopo il ciocco, con quel che costa.


Aiello ha trovato un posto buono, ci siamo inoltrati tutti nella macchia, per aiutare a passare Gigli si è preso un rovo nel collo, una tremenda raspata che lo fa sanguinare. Alla base degli arbusti qualche ciocco affiora dalla terra, mostra appena un po’ della sua groppa, una scorza sottile, scabra, rugosa e friabile, il colore e rosso bruno o nerastro. Gli uomini si parlano, si danno indicazioni, dicono ha poco pane, dicono è una bella crosta, parlano di cioccaia e di palla si seme (l’arbusto si riproduce dal seme). Qui c’è roba di venti o trenta anni, non eccelsa ma buona. Aielo e gli altri non hanno bisogno di vedere la crosta affiorare, vanno a colpo sicuro, quando abbattono un arbusto e cominciano a scavare stai tranquillo che il ciocco c’è, e bello, e utilizzabile. Certo, dentro non ci vedono neppure loro, l’interno di un ciocco è sempre una sorpresa.


Scavano rapidi ma con cautela, la roba è preziosa, lo si è detto fino alla noia, guai a danneggiarla. Staccato dal fusto, bisogna liberare il ciocco dalle radici, troncare il fittone. Ed eccolo finalmente fuori dalla terra, informe, bitorzoluto, chiamarlo palla è proprio un modo di dire. Per qualcuno c’è un intervento sommario sul posto, gli uomini vedono subito che c’è robaccia da eliminare, un colpo sicuro e del ciocco resta un pezzo, una groppa, una sezione. Ma queste magagne le vedo persino io, dentro, il ciocco è ancora tutto un mistero. Mi vien di pensare all’ostrica, chi ha la perla e chi non ce l’ha, proprio in questo mistero c’è fascino.



IL DIRITTO DI BOSCAGGIO


Mentre gli uomini lavorano, Cresci mi parla del bosco. E’ un discorso un po’ da poeta, un po’ da fumatore di pipa (e le due cose, si sa, vanno d’accordo), un po’ da operatore del settore, come si dice. E’ un discorso triste, preoccupato. Intanto lui ama i boschi, ci è vissuto, li conosce nella loro vita brulicante e affascinante, ci passerebbe anche oggi ore e giorni se il lavoro glielo permettesse. E poi, proprio per questo lavoro, li compra. Diciamo meglio, compra il diritto di boscaggio, che adesso si limita all’estrazione della radica. L’acquisizione di questo diritto ha avuto nel tempo varie formulazioni giuridiche, diverse tradizioni. In Calabria, per esempio, anche oggi si fa un’asta a busta chiusa. Ci sono poi criteri diversi se il bosco è erariale, cioè proprietà pubblica, o è privato. In Toscana si tratta con le Comunità montane, c’è la stima della Forestale: Cresci non fa cifre, ma ho saputo che somme tra i dieci e quindici milioni si può acquisire il boscaggio di zone in cui si lavora per un paio d’anni. Ormai si tratta quasi sempre di piccoli appezzamenti, sui tre-quattro ettari, difficile trovare estensioni maggiori. Una volta, in varie zone d’Italia, i ciccaioli arrivavano nel bosco un anno dopo che s’era fatta la tagliata e s’erano bruciati arbusti e ramaglie: le eriche erano appena rispuntate. Oggi, come dicevo, si va solo espressamente per il ciocco.


Qui in Alta Maremma i ciccaioli esperti non sono più di una ventina. Lavorano dall’autunno fino a quando la pianta entra “in succhio”, cioè avviene la fiorita esplosione della tarda primavera. In genere non si scava in estate, anzi in alcune regioni è proibito andare a lavorare nei boschi nella stagione calda tanta favorevole agli incendi. Il ciccaiolo è pagato a quintalaggio, più ciocchi scava e più guadagna. Se ci sano fare tirano a casa cifre discrete, ma il lavoro è faticoso, tanto è vero che non ci sono giovani disposti a sopportare questi disagi. Anche questo mette in pericolo un’attività squisitamente italiana. Ma il discorso va allargato, come fa Cresci, è tutto il problema del bosco che va affrontato. Nel bosco tutto ha una sua ragione, una sua funzione, l’albero e il fiore, la spina e il cespuglio. Il sottobosco, per esempio, è essenziale. Ma se non ha luce, aria, sole, muore. E la sua morte è una condanna per l’intero bosco. Allora ecco che bisogna sfoltire, occorre eliminare le piante vecchie e lasciare le matricine, cioè gli alberi giovani e forti. Per anni è corsa la leggenda che la “scopa” fosse dannosa. Non è vero, naturalmente. Come s’è detto, ogni arbusto, ogni foglia ha un suo motivo d’essere. Se non si lavora nei boschi, se non ci si lavora razionalmente e con la giusta frequenza, rischiamo di perdere un patrimonio prezioso. 



L'ERICA E I SUOI NEMICI


Cresci si scalda, ne parla con eccitazione. Il leccio e il cerro sono piante vigorose, prepotenti. Crescono e tolgono luce e aria al ginepro, alla mortella, all’ornello, al lillatro, al corbezzolo (cugino dell’erica), al carpine, a tutta quella meravigliosa vegetazione di cespugli e arbusti che formano il sottobosco. Mi mostra una piccola zona in cui si è intervenuti con intelligenza: poche, giovani piante svettano pimpanti e tra loro vedi tutto un pullulare di vita, dei verdi che squillano, ti sembra di sentire l’energia naturale che erompe dalla terra e che si esprime nelle mille forme della macchia. Prosaicamente (ma non poi tanto) per noi fumatori di pipa salvare il sottobosco vuol dire salvare l’erica, assicurare la crescita di ciocchi grossi, sani, robusti. Se n’è cavata tanta di radica, che se non si creano le condizioni perché si riformi (e si riformi bene), magari non a noi, ma ai nostri figli o nipoti toccherà tornare alle pipe di terracotta.


Ma noi, per ora, torniamo ai ciocchi. Sul luogo di lavoro gli uomini hanno scavato una grossa buca. Accanto hanno sistemato il “banco”, che è poi un pezzo di legno a cuneo ficcato nella terra. Appoggiando il ciocco appena estratto a questo “banco”, lo si ripulisce. Lavorando rapidi di accettino, gli uomini li liberano di appendici vegetali e delle parti cattive, sassi, terra, seco, marcio. Poi lo buttano nella grande buca. Quando è piena, la coprono di terra, che bagnano, e sopra ci mettono ancora frasche. A questo punto area e sole sono un pericolo, il ciocco si secca e si spacca. Bisogna che “muoia lentamente” (è un modo di dire, perché continuerà a vivere a lungo) restando verde e fresco fino all’attacco della sega circolare.


Adesso è il momento di smacchiare, che in questo caso vuol dire togliere dalla macchia. In poche parole, levare ciocchi dalle buche scavate nei giorni scorsi (e mentre si toglie la terra, scopri che qualcuno, incredibilmente, ha germogliato, pochi steli di un verde tenerissimo sul nero della scorza) e riempire i corbelli appesi ai fianchi di cavalli e muli. Si lascia il bosco, in fila lungo i sentieri si arriva alla strada sassosa dove un auto aspetta noi e un camion carica i ciocchi. Andiamo tutti alla segheria, quella del marchio col cinghiale e l’abbozzo gigante, (….) la fabbrica che si chiama, dal 1883, “Segherie in Maremma-Abbozzi per pipe”, a Sassetta,  in provincia di Livorno, appena fuori del paese, che è un bel paesetto tipo presepio con qualche giustificata pretesa turistica, in zona piena di richiami carducciani (Bolgheri, Castagneto).


Direi che Sassetta – la si raggiunge con una breve deviazione dall’Aurelia – a due celebrità: il nostro Fanis Cresci con i suoi abbozzi e il Biondo che è un oste anche troppo loquace che sa farsi perdonare terrificanti storielle con un coniglio inarrivabile e della selvaggina che è la fine del mondo. Se poi (si fa un po’ pregare) mette mano alle marmellate fatte in casa e ai ficchi sott’olio, che naturalmente non hanno niente a che fare con l’olio, allora vien voglia di abbracciarlo.


Ma torniamo alla segheria. Due cose ti colpiscono subito: le balle di radica, che trovi dappertutto, e lo stridore delle seghe circolari che dappertutto ti insegue. Per non rischiare confusione, cerchiamo di seguire passo passo il camino della radica, dal momento in cui entra nella segheria in forma di ciocco appena arrivato dal bosco, fino al momento in cui esce sottoforma di abbozzo, o di placca, bene imballata, spedita a “raffinerie” di tutto il mondo. Raffineria non c’entra col petrolio, nel gergo di questo mestiere è semplicemente la fabbrica dove si producono pipe. 



IL CIOCCO CONTINUA A VIVERE


Allora: ecco i camion che scaricano ciocchi, queste ”palle” informi, scure, più o meno grosse, più o meno intatte dopo la prima operazione di pulizia fatta nel bosco. Vengono accatastati in un grande capannone umido e scuro. Quando non c’è ne sta più, anche al aperto, i grossi muchi coperti di fascine e di teli. Si tratta di tenerli umidi e freschi fino al momento del taglio. Se seccano, si spaccano e addio abbozzo, se li bagni troppo possono ammuffire. Anche per evitare questo pericolo devono respirare. Sono “vivi”: nel buio del magazzino, dalla massa scura dei ciocchi umidi spunta qua e la il verde tenerissimo – lo vedi luminoso tanto fa spicco – di un germoglio, di uno stello. Le parti di vera e propria radice rimaste nel ciocco “buttano” ancora. Bagnato quattro volte al giorno, il ciocco può resistere un anno, anche un anno e mezzo, purché possa respirare e sgrondare.


Viene comunque il momento in cui passa nelle mani del segantino o segatore. Che è una brutta parola e insufficiente a delineare un mestiere che comincio proprio qui in Toscana e si diffuse poi in Calabria. È un mestiere non facile e non privo di rischi, tanto è vero che pochi vanno in pensione con tutte e dieci le dita intere. È stato tante volte paragonato al lavoro del tagliatore dei diamanti, forse nel tentativo (inutile) di nobilitarlo. Il paragone e quantomeno forzato. Il segantino (e se provassimo a chiamarlo bozzatore…) deve ricavare dal ciocco il maggior numero possibile di abbozzi, della migliore qualità possibile, i più grandi possibili (ma con le giuste proporzioni). No, non è facile. Anche perché tutto questo lo si deve fare non con il seghetto del traforo, ma con una ruota dentata che ha un diametro di mezzo metro e fa millecinquecento giri ogni minuto. Se hanno voglia di divertirsi, in pochi attimi di pausa con questo po’ po’ di lama ti forniscono l’arredamento completo per una casa di bambola (…). Mani miracolose. 



DANTE NON ABITA PIU' QUI


Queste mani e il colpo d’occhio sono le armi del buon segantino. Quando apre il ciocco individua immediatamente gli elementi negativi da scartare: il tarlo, la tara (punti neri), il rosso cupo della parte centrale. Liscio e nodi sono elementi costitutivi del legno, non si possono scartare anche se impediranno di ottenere una testa perfetta. Sassi e marciume sono eliminati prima con la picchetta che, con la grande lama, è uno dei pochi strumenti del segantino. Anzi, si può dire che, a parte un “calibro” usato di rado (per le misure basta l’occhio), gli altri arnesi sono tutti al servizio della sega: per raschiarla, per limarla, e il tanagosc (parola misteriosa in cui si può indovinare un “a gauche” francese) per “darle la strada”, cioè per regolare l’inclinazione dei denti che sono grossi e di acciaio temperato. Non stupisca il richiamo francese. Il primo impiego industriale per far pipe avvenne in Francia e i francesi furono i primi imprenditori che vennero a sfruttarla in Italia. Ci sono altre parole di evidente derivazione francese usate in segheria: il piano su cui scorre il ciocco verso la lama si chiama tabletta, poppé sono i due supporti che reggono l’albero della sega.


Anni fa avevo visitato una vecchia segheria e vi avevo tratto impressioni paurose. I segatori al lavoro mi avevano evocato i dannati danteschi. Un tavolo divideva a metà il capannone: sopra, uomini dimezzati davanti alla lama vorticosa, tra lo stridore del legno azzannato dai denti della sega e un pulviscolo impalpabile che penetrava dovunque e velava ogni cosa; sotto, lo spettacolo grottesco e impressionante di gambe penzoloni dalle buche e l’ammucchiarsi rapido di scarti e segatura, il tutto più indovinato che visto.


I dieci segantini al lavoro qui a Sassetta, per fortuna, operano in condizioni ben diverse. La polvere è ridotta al minimo da potenti aspiratori. Scarti e segatura, nell’ambiente sottostante, sono convogliati via rapidamente, l’atmosfera è pulita e luminosa. Il rumore c’è, non so se sarà mai possibile eliminarlo.


Guardo gli uomini seduti nelle buche davanti alle dieci lame e considero che sono tutti anziani. Ci parlo, un paio vengono dalla Sardegna, ragazzi da avviare al mestiere qui in zona non se ne trovano. Il lavoro è duro, non consente (e non perdona) distrazioni. Per guadagnare bene bisogna darci sotto. Un segantino bravo produce in un giorno mediamente 120 chili di abbozzi, partendo da tre-quattro quintali di ciocco. Siccome un chilo equivale a sei-sette abbozzi (bollitura e stagionatura li renderanno poi molto più leggeri), il lavoro quotidiano di un segantino bravo si traduce in settecento-novecento abbozzi. Intanto che siamo in vena di cifre, diciamo subito che su questa produzione gli abbozzi di qualità non comune sono settanta-ottanta ; che durante la stagionatura c’è la perdita del 5-7% di spaccato; che analoga perdita si registra successivamente in fabbrica. Non insisto con le cifre, ma forse si comincia ad avere un’idea di come possa essere caro un “pezzo di legno”. 



LE DRITTE DI MARSIGLIESI


Il bravo segantino, come ho detto, fa tutto a occhio. A occhio taglia a misura, a occhio assegna la qualità. Ogni colpo di lama ha una funzione, un significato. Aperto il ciocco (non sempre a metà, ma secondo le linee e le modalità di sviluppo) individua immediatamente l’andamento delle fibre e il modo per “collocarle” nell’abbozzo. E’ qui, in fondo, che nasce il futuro disegno della pipa, la favolosa “fiamma”, il prestigioso “occhio di pernice”. L’abilità del segantino e i denti della lama cavano dal ciocco il meglio che può dare. Dopo, ci sarà ben poco da fare. D’accordo, c’è da fare una bella pipa, ma voglio dire che non è più possibile intervenire sostanzialmente sul disegno del legno, sull’andamento delle venature.


S’intende che un altro pregio è dato dalla dimensione dell’abbozzo. (…) L’abbozzo grande offre in fabbrica maggiori facilitazioni di lavoro.


Non sto ad elencare forme e misure degli abbozzi, la segheria di Sassetta ne ha in lista ventisei tipi riconducibili a due categorie fondamentali: il marsigliese per le pipe diritte e il rilevato per le curve. Si può poi ricordare il forte e il carré. Per avere un’idea della varietà delle dimensioni, si può dire che una balla può contenere dalle ventiquattro alle centoquarantaquattro dozzine. (…) Quanto alla qualità c’è una lunga graduatoria che parte dall’extra extra. Seguono extra, prima, misto, seconda. Il resto si butta via. Già il misto è di collocazione molto difficile, ma il discorso è lungo e lo rinvio a dopo. Fanis Cresci non mi ha fatto prezzi, ma ho saputo che una balla di extra extra oggi supera largamente il mezzo milione, con un certo scandalo qualcuno è arrivato a pagarla settecento mila lire. Fatto qualche calcolo con la mia scarsa capacità aritmetica avrei concluso che un abbozzo di buone dimensioni, di qualità extra extra viene a costare la bellezza di 1700-1800 lire. Un’abbozzo, cioè un pezzo di legno. Se si considera quello che poi capita in fabbrica – spaccato, inevitabile scarto – alla già rispettabile cifra si deve aggiungere una percentuale non indifferente. Le placche, cioè quelle porzioni di ciocco di misure fuori dalla norma e di qualità particolare, usate per pipe artigianali, hanno prezzi che vanno da cinque mila in su. 



EXTRA O NIENTE


Ma non ho completato la descrizione del ciclo di lavorazione. Gli abbozzi, tagliati secondo le misure prescritte e suddivisi sommariamente per qualità, vengono fatti bollire per ventiquattro ore in una grande caldaia rettangolare di rame. La bollitura elimina il tannino, la linfa e le resine contenute nel legno, gli conferisce porosità e pastosità. L’acqua acquista un colore rosso-bruno. Anche gli abbozzi cambiano colore, da quello chiaro del legno al rossastro. Asciugando diventano marrone chiaro, che si fa più caldo nel corso della stagionatura. Una parte di questa si fa in segheria, dove gli abbozzi sono ripetutamente controllati e suddivisi per qualità. Al resto pensano poi i fabbricanti di pipe che a questo punto subentrano. Come s’è detto, la segheria di Sasseta ha dieci lame. In Italia ne girano oggi da quaranta a cinquanta in tutto, di cui venti-venticinque in Calabria, tre-cinque in Campagna, tre in Liguria, qualcuna sporadicamente in Sardegna. Sessant’anni fa Egidio Dei controllava trentasei segherie per conto della ditta francese Vassas Freres, dislocate nel Salernitano, in Calabria, in Sicilia e in Sardegna. Qualche anno prima, con base a Villa San Giovanni, era arrivato a dare lavoro a cento famiglie; con gli scavatori o cioccaioli aveva più di mille operai alle sue dipendenze. Come si vede, è un’attività tipicamente italiana che si direbbe destinata al lento esaurimento. Oggi lavoriamo poco più della meta della radica mondiale; Spagna e Marocco quantitativamente non sono molto lontani. Ci sono segherie anche in Grecia e qualche piccola lavorazione si fa anche in Tunisia e in Corsica.


Ho visto nei cortili della segheria di Sasseta grandi cataste di balle. Ne ho chiesto spiegazione e Cresci mi ha detto che il problema più grande – non soltanto suo – è lo smercio degli abbozzi piccoli e di qualità non eccelsa. I produttori di pipe vogliono soltanto le due o tre qualità superiori e c’è chi o extra extra o niente. E tutto il resto? L’immobilizzo di capitale rischia per molti di diventare insopportabile. O dovranno “caricare” sulle qualità più richieste tutti i costi? 



LE PLACCHE DELLA DOMENICA


La “campana” di qualche grande produttore di pipe ha un suono veramente diverso. C’è troppo smercio più o meno clandestino – dicono – di placche pregiate. Artigiani o pipari della domenica se la procurano scremando il meglio e non badano alle mille lire in più. Si portano via nel baule dell’auto le cinquanta o cento placche strapagate, da cui ricavano pipe (non sempre ben fatte) che vendono a prezzi d’amatore, sfruttando la moda del “pezzo unico” e del “fatto a mano”. L’industriale deve comprare a milioni, immobilizzare capitali per la stagionatura, ha una fabbrica da far funzionare sempre, deve tenere un certo livello generale di qualità per onorare la marca. Non è giusto – insistono – che nella grossa fornitura debbano prendersi il buono e il meno buono, mentre la “crema” è stata portata via da altri. Una placca “clandestina” può essere eccezionalmente pagata anche dieci mila lire, cifra che non può evidentemente rientrare nei grandi conti di un’industria; ma l’industria, alla segheria, dà milioni e garantisce forniture continuate e regolari.


(…) Chiudo questo racconto del mio viaggio alla scoperta (o riscoperta) della radica esprimendo ammirazione per gli uomini che ho visto al lavoro davanti alle grandi lame vorticose, così come avevo fatto per i cioccaioli, gli uomini del bosco. Ho conosciuto persone eccezionali, di eccezionali capacità professionali non meno che di qualità umane.


Vorrei aver conosciuto Egidio Dei, classe 1870, vero personaggio. Ho dovuto accontentarmi delle sue memorie stampate alla casalinga. Anarchico di quelli sentimentali, ricorda di aver guadagnato, nel periodo dal 1885 al 1890 una paga tra le 180 e le 200 lire mensili che “gareggiava con lo stipendio dei professori d’università”. Faceva allora il tagliatore, in una segheria di Serrazzano (Pisa) di proprietà francese; e sempre in una segheria francese alle Roche di Massa Marittima aveva cominciato a 15 anni. Ha lavorato in Calabria e in Sicilia, in Campania; ha visitato boschi in Albania, in Turchia, in Romania. È stato in Grecia a insegnare come si estrae e si pulisce il ciocco. Mi piace concludere con le sue parole: “A quell’epoca quasi tutte le segherie erano azionate a forza idrica, ad eccezione di poche impiantate vicino alla ferrovia che si servivano di piccole locomobili alimentate con segatura e ritagli di legno da pipe. C’erano difficoltà e liti con gli agricoltori per l’utilizzo dell’acqua. Il turno di passaggio delle acque nelle due segherie era di notte. Lavorare dieci ore alla luce di affumicati lumi a petrolio ed in ambiente talmente umido che l’acqua trasudava dai muri, era un vero martirio”.


Giuseppe Bozzini

Smoking - 1980/1981

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